Michele Della Vecchia

 

 

 

Michele Della Vecchia nacque a Nusco il 21 aprile 1921 da Crescenzo e Rosa Bolino. Come spesso accadeva all'epoca fu però registrato all'anagrafe solo una settimana dopo. Come scrisse ironicamente nella prefazione del Suo libro "Monte Gugliano", era solito ripetere che Roma e lui avevano qualcosa in comune. Frequentò il ginnasio prima a Ostia e poi presso il Liceo Tasso di Salerno fino ad approdare al seminario di Nusco. Assolse agli obblighi di leva presso la Scuola Ufficiali di Moncalieri in provincia di Torino. Durante la seconda guerra mondiale condivise la responsabilità del distretto militare di Pisa con un capitano medico napoletano. Non amava parlare di questo periodo, l’unico accenno si riferiva al maldestro uso di una bomba a mano. Con la sottile autoironia che lo contraddistingueva, soleva ripetere: "sono riuscito a farmi male da solo, senza aver mai partecipato ad una vera e propria azione di guerra".  Si laureò in lettere Classiche all'Università dI Napoli nel novembre del 1946 e trascorse i primi anni di insegnamento a Melfi. Durante quel periodo ebbe modo di ospitare alcuni braccianti agricoli nuscani, arrivati fin lì per "buscare qualche lira" e fra questi ricordava con simpatia "l'infaticabile Pipilone".  Il rammarico più grosso di quei mesi trascorsi insieme fu quello di non avergli fatto capire che il "professore"' non era altro che il "monello" di via Moscatelli, il figlio di Rosina, di fronte al quale non occorreva scappellarsi.

 

 

 

 

 


Per un lungo periodo Insegnò ad Atripalda ed ebbe come alunno riconoscente, fra gli altri, il professor Pellegrino Capaldo.


Nell'agosto del 1955 convolò a nozze con Felicia lanzetta, che non smise mai di chiamare “Bellè,” in virtù dello splendore giovanile.
Ricoprì l'incarico di preside a metà degli anni Sessanta presso la Scuola Media Statale di Montella e di Pietrastornina.
In questi istituti lo ricordavano tutti perché era solito arrivare a scuola prima che i bidelli aprissero l cancelli e nonostante le avversità atmosferiche. Poi ritornò all'insegnamento, prima presso la Media "Cocchia" e poi presso il Magistrale di Avellino, dove concluse la sua carriera nel 1986.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Collaborò a diversi periodici, quali Proposta Sud, Opinioni, Nuovo Meridlonalismo, Nuovo Sud e svariati allri. Partecipò ad una fortunata trasmissIone televisiva, "Sei, Sessantasei", nella quale parlava di grammatica e di parole. Ebbe tre grandi passioni: l’insegnamento, la lettura e un amore immenso per le sue nipotine.
E' scomparso il 25 luglio 1996. Dovendo tracciare un profilo si potrebbero utilizzare integralmente le parole del necrologio apparso su Ottopaglne il 27 lugllo: ...Persona siIenziosa, orgogliosa nella sua umiltà, é stato un punto di riferimento costante per i tanti giovani che hanno imparato ad amarlo per quello che era: un galantuomo.

 

 


 

 

Il mago

 

Un ragazzetto di sei anni, Michele Della Vecchia come me, fu mandato al mio capezzale per farmi compagnia durante il lungo corso della mia nefrite, la quale, come tante altre malattie a Nusco, veniva curata con bevanda e cartelle. La bevanda era uno sciroppo dolciastro di colore rossa arancione, che il farmacista don Michele Chieffo preparava galenicamente, neIle immediate vicinanze del castello, allo stesso modo delle cartelle, che racchiudevano un po' di polvere bianca in ostie tonde come quelle dell'altare. Il nome deriva dalla carta, spessa e bianca, in cui la medicina era avvolta e sigillata con pieghe di somma perizia.

Il ragazzetto veniva volentieri a casa, perché sapeva che cola­zione, pranzo e cena lo privilegiavano nei confronti dei numerosi fratellini, che certo non scialavano.

 Il padre, compa Pietro, di professione ciabattino, raramente in proprio, aveva anche lui, come tanti altri umili artigiani, una famiglia numerosa, dove chi si alzava più presto la mattina rubava qualche capo di vestiario agli altri. Mai. d'estate, per via dei bel tempo. Ricordo la mamma di famiglia, Rosina dell'Amore, cognome unico a Nusco, che veniva al nostro negozio per comprare un misurino d'olio, la decima parte del litro, che doveva bastare per tutta la settimana. Una buona condita d'insalata avrebbe ridotto vistosamente il prezioso, come l'oro, liquido che, in casa di versamento, avrebbe - Dio liberi! - annunciato chissà quali sventure.

Michele già cominciava ad imparare il mestiere del padre, arte che a Nusco deteneva il secondo posto dopo il primato dei contadini. In campagna appunto andava di tanto in tanto compa Pietro a lavorare a giornate intere presso le famiglie patriarcali, dove si riparavano le scarpe dell'intera tribù. La paga consisteva per un quarto in denaro e per il resta in beni di natura, che in famiglia erano vivamente attesi. In queste operazioni si aveva la pericolosa concorrenza degli artigiani che avevano bottega e discepoli. Essi, come i falegnami, i sarti, i barbieri, erano i masti (maestri) che passavano alle consorti il titolo al femminile, vistosamente trasformato.

Io ero troppo piccolo per ricordare se compa Pietro si rivolgesse a mamma con il termine di maiesta. Ouest'ultirno termine è ormai scomparso per la legge del non uso. Ne volete un altro? Putaturu: il mazzapicchio che aiutava a spaccare la legna.

 

Compa Pietro non era un lavorante rifinito ma andava bene per le grossolane, e senza differenza di sesso, calzature dei nostri contadini. Questi portavano al piede le grosse e ruvide pursiane, scarpe di cuoio duro con ordinate file di chiodi piccoli e grossi sotto le piante, allacciate da cordicelle ricavate dalla pelle dei cani, i curriuoli. Le scorribande banditesche di me e dei monelli miei coetanei obbligavano a metterci ai piedi gli scarponi degli ofantani, parola che sapeva allora di non poco spregio in bocca agli artisti (vedi arti­giani) del paese. Le altre calzature, privilegio deI ceto cittadino, di un cuoio sottile e leggero, erano dette di croma e costavano molto di più.

Compa Pietro, a contatto non infrequente con il mondo dei campi, aveva imparato a conoscere la mentalità dei nostri coltivatori indiretti (la maggior parte delle terre era di proprietà altrui) che, al momento del pagamento si dimostravano restii a sborsare dena­ro e pronti a dar di più in prodotti naturali. Constatò da vicino che, nei casi di grosso affare, dopo aver fatto visita a san Gerardo di Caposele, al san Salvatore di Montella, si portavano in quel di Guardia dalla mamma santa, la fattucchiera che indovinava, risolveva problemi, aiutava a guarire. Vide che, un po' più dei cittadini, credevano al malocchio, alla fattura, alle mille superstizioni dei paesi del Sud. Se avesse saputo acquistarsi la fama di indovino, guaritore, insieme con quella che un giorno sarebbe stata l'arte del colonnello Bernacca, avrebbe sfondato e assicurato alla famiglia un sicuro avvenire. Ma la fortuna non fu dalla sua parte.

Tentò prima la strada della fattura (operazione magica che aveva altissime virtù: ridare la salute, assicurare l'amore non corrisposto, spuntare le armi dell'invidia e del malocchio) con risultati che in gergo moderno si direbbero una frana. Intervenne a consulto al capezzale di ammalati che il medico non riusciva - era il casa mio - a tirar fuori dal letto. Gli andò bene solo qualche volta. Consiglio a mamma, per il lungo e disgraziato decorso della mia nefrite, una buona sgroppata a dorso d'asina: si doveva attraversare un boschetto di querce, tre corsi d'acqua e un maggese. Forse non sarei qui a scrivere se mamma avesse accettato quella prescrizione invece di recarsi da comma Arcangela del sagrestano, (la nonna di Lorenzo mio genero), che venne ad applicarmi 24 sanguette (mignatte o sanguisughe), numero molto alto per un ragazzetto di otto anni. La mattina del venerdì santo del 1929, dopo un lungo urlato delirio, mi trovai pressoché privo di gonfiore e reclamante una zuppetta di latte e caffè. Compa Pietro non riusciva a sfondare e martellava, imprecava, suturava per mandare avanti una barca sgangherata e piena di passeggeri. Una sola volta gli riusci il tiro della previsione, che fu, è il caso di dirlo, un colpo di fortuna. Per forte risentimento contro il rifiuto di un contadino a certe sue richieste, Pitinale - non poteva mancare anche a lui un nomignolo -lanciò l'anatema e profetizzò una violenta tempesta. All'istante il cielo si oscuro e si abbatté sulle campagne di Nusco un autentico fortunale che richiese l'intervento del campanaro (non confondiamo col termine dialettale del campanile) per disperdere l'ammasso di cumuli che minacciava il bene di Dio, il raccolto.

 

 

 

La cosa procurò un momento di notorietà ma fu presto dimenticata.
Se le cose avessero preso un'altra piega, tutto sarebbe stato di­verso per la famiglia: Rosina non sarebbe morta ancora cosi giovane, Michele non avrebbe tentato la carta del nord padovano, da dove mi ha procurato spesso per l'omonimia la chiamata da parte dei CC.RR. (carabinieri repubblicani se non reali), Alfonso non sareb­be entrato nelle file della Legione Straniera per combattere un giorno all'inferno di Dien Bien Fu, Felicina non si sarebbe maritata cosi giovane per non perdere un buon partito, gli altri ... beh per gli altri è stata una gran ventura l'emigrazione in terra di Svizzera e di Francia.

Non avrebbe pronunziato all'indirizzo mio e di mio cognato Raffaele la terribile sentenza evangelica "Guai ai ricchi!" il giorno del 23 agosto degli anni 50, quando ci vide passare con gli abiti della festa in via Landone. Né avrebbe visto sulla sua tomba la corona floreale di maiolica recante la scritta di terra francofona "A nos parents". Soprattutto non avrebbe condotto una vita grama sino al giorno in cui, sistemata la famiglia e partiti i figli per le terre dei quattro venti, non vide un po' di benessere per la gratitudine dei ragazzi verso l'umilissimo artigiano che, in unione affettiva con Rosina dell'Amore, aveva dato loro il gran dono della vita.

 

 

Versione in nuscano

 

 

L'ORO NERO (1953)

I mastodontici "castelli", piantati alle falde dei Picentini perforavano la terra nella zona detta Fiorentino, alla ricerca di falde d'acqua per l'assetata Puglia. Contemporaneamente e nello stesso luogo si scavava una lunga galleria che doveva convogliare le acque delle sorgenti del Calore agli impianti dell'acquedotto del Sele. Nonostante la forte emigrazione verso la Svizzera, la Francia, la Germania, le vecchie Americhe, di manodopera, su al paese, ce n'era in quantità. I lavori alle condotte furono una vera manna: contadini, sarti, calzolai si trasformarono in manovali, sterratori, minatori. I Nuscani, celebri fumatori, giocatori, bevitori, seppero adattarsi a qualsiasi genere di lavoro per una bustapaga che sul posto non si sarebbe mai sognata.

 

 

Si cercava l'acqua, ed ecco che un bel giorno dalle trivella zampillò un rivolo di liquido nero, dall'odore inconfondibile. Si gridò subito al miracolo ed invano gli interessati ai lavori cercarono di soffocare quel grido e di minimizzare la cosa. La voce corse nell'aria, salì all'abitato di Nusco, da dove si sparse per tutte le contrade convicine. Rinasceva la favola dell'oro nero, l'impossibile sogno che ha nutrito la fantasia di tante generazioni. Si faceva vivo il ricordo dei lontani tempi dell'impiego quando i tralicci installati nella piana del l'Ofanto, a breve distanza dalla zona sopra menzionata, ricercavano il prezioso liquido. La leggenda, il bel sogno, allora, durarono lo spazio d'un mattino. La guerra d'Africa, il patto d'acciaio, la coda del diavolo mandarono in fumo entusiasmi, tante speranze.

 

Ma ora le cose stavano diversamente: il petrolio c'era, era venuto fuori spontaneamente, al posto dell'acqua; lo avevamo sotto i piedi come nella Libia africana. Giornalisti, fotografi, sindacalisti corsero lassù per i loro servizi speciali. Tutta l'Alta Irpinia fremeva, fantasticava, sognava; Nusco, Lioni, Sant'Angelo guardavano meravigliati alla zona dove era avvenuto il miracolo. Intanto ogni cosa fu ridotta alle dimensioni scientifiche e tecniche. Voci maligne o interessate vollero ridimensionare l'entusiasmo suscitato dal miraggio dell'oro nero: non era proprio possibile che Nusco, dove Cristo non s'è mai fermato, potesse essere al centro di una colossale fortuna mineraria.

E poi vennero i Francesi: ingegneri e geologi, e con loro certi fiori di ragazze che fecero girar la testa a giovani e non più giovani, tra i miei concittadini, scossi dal fascino delle sofisticatissime parigine. Le madamine giravano per le strade a fare acquisti, portando alle spalle i loro piccoli tenuti stretti da un complicato sistema di cordicelle di cuoio. Intanto i loro mariti compilavano le relazioni traditrici che davano il colpo di grazia al bel sogno fiorito in un radioso mattino di primavera.

Le splendide parigine sono sparite, la nostra acqua corre verso la Puglia, resta la bella favola che, per così breve tempo, ha illuso nuovamente le genti della verde Irpinia.     

 

 


 

LE MILLE LIRE

                    Mario Della Vecchia, figlio di Peppino il guardiano, ossia il fattore della tenuta Imparato, capeggiava la banda dei monelli del "Bivio", che ne combinavano di tutti i colori e di tutti i sapori. Si arrampicavano sugli alberi meglio dei gatti a saccheggiare nidi e frutta di stagione, senza badare ai confini delle varie terre; tagliavano i teneri germogli del castagno per farne zufoli e flauti, saltavano a rompicollo siepi e fossati, di ritorno dalle spedizioni punitive nelle zone dei rivali. Mario e compagni s'erano fatti una fama che faceva invidia finanche alla peste e alla bufera. Tornavano agnellini per pochi istanti la mattina, quando, isolati, imboccavano le stradine - carrali - che immettevano nella strada della scuola, dove con un lampo di luce negli occhi, in tempo di primavera, offrivano alla maestrina il mazzetto di primule e viole. Dentro i banchi già rabbrividivano al sentore e in attesa dei piccoli vandali.

                    Un giorno vollero tentare l'artigianato contadino e piazzare i loro prodotti al vicino mercato di Ponteromito. In casa di Mario venne ammassata la materia prima della piccola industria, ossia la saggina per la confezione delle scope, le compagne di quella granata che il Pascoli cita in una sua lirica. I ragazzi lavorarono accanitamente quasi una settimana, sino al venerdì, sacrificando parte dei giochi del pomeriggio e del piccolo assegno scolastico: tanto li allettava la previsione d'un gruzzoletto guadagnato col proprio sudore. Al caporione, Mario, era riservato l'onore dell'ultima mano: collegare i lunghi steli in un grosso manico che a stento conteneva nel cavo delle due mani. Il lavoro era una chiassata ed insieme una gara di edificante solidarietà. Calcoli sul realizzo, relazioni di imprese individuali, progetti di gesta collettive, sgambetti e ruzzoloni addolcivano la stanchezza del gruppo che pure protestava per l'arrivo dei grandi che volevano mettere il naso. Fissato l'appuntamento per la mattina del sabato, giorno del mercato settimanale, i marmocchi fecero ritorno a casa per cena e sogni di denari a palate.

                    Il primo chiaro del giorno li fece ritrovare puntuali sul ciglio della provinciale. Le spalle di Mario e dei luogotenenti hanno l'onore dell'onere; gli altri giannizzeri potranno prendere la gloria dell'avanguardia e della scorta. Si parte: che impressione possono fare cinque chilometri a gente abituata a correre e a saltare tutto il giorno? E poi il percorso tutto in discesa facilitava le cose. Mezz'ora bastò per giungere, tra strada maestra e scorciatoie, giù in fondo alla valle dove il fiume Calore divide e distribuisce l'abitato di Ponteromito tra i comuni di Nusco e Montemarano. Furono tra i primi, sicché fu agevole conquistare un posto strategico per metter in mostra la merce di pura marca locale. Quando il mercato comincia a riscaldarsi, tentarono qualche grido che tradiva chiaramente l'improvvisazione del mestiere; l'impazienza dell'età li portava a sbarazzarsi della merce, possibilmente in blocco, ad un'offerta che non offendesse una settimana di lavoro da parte di cinque piccoli cristiani. Era una cosa a vederli intervenire in coro nelle trattative e sollevare in alto gli esemplari meglio riusciti. Finalmente l'affare fu fatto: un bigliettone da mille, che fece sgranare gli occhi a tutta la compagnia, passò nelle mani del capo, Mario Della Vecchia. Questi con una torsione di 120 gradi la mostrò stretta tra l'indice e il pollice della mano destra emettendo un grido di trionfo.

                    Ma un altro infausto grido attendeva il piccolo gruppo, immerso nella calca al momento di punta del mercato. D'improvviso il nostro eroe, per fare uno scherzo comune dalle nostre parti, getta a terra il bigliettone, si china di scatto, lo raccoglie urlando: "Ho trovato mille lire!". Non l'avesse mai fatto: con lo stesso scatto si volta una spiritata di Castelfranci, lì vicino, e grida a sua volta con tutte le convulsioni: "A la mia!". A nulla valgono le proteste della truppa e le ragioni del capo. "Sei pazza!". "Coscienza dell'anima!". `Ma vattene via!". "Metti qua, mariuolo!". Sono le battute che si rimandano i contendenti. I cu­riosi si girano, si rinserra la calca, diventa impossibile svignarsela. Ma i due carabinieri sono già sul posto: il mercato occupa solo un breve nastro di strada. L'appuntato interviene, ascolta le ragioni delle due parti e su due piedi sentenzia salomonicamente: "Beh, facciamo cinquecento lire per uno!"