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Il Goleto  

San Francesco


SS.Salvatore

S.Gerardo

Montevergine

S.Antonio

Fontigliano


























Il Goleto  

San Francesco


SS.Salvatore

S.Gerardo

Montevergine

S.Antonio

Fontigliano



































 

 

Il Goleto

 

Superato Fontigliano (Nusco) ci si affaccia nella Valle dell’Ofanto e nei pressi di Sant’Angelo dei Lombardi, lungo la S.S. 7, l’an­tica Appia, in un suggestivo scenario delimitato dai monti Picentini, si trova l’antica Abbazia del Goleto.

Fondata da San Guglielmo da Vercelli (1085-1142) intorno al 1133, il santo monaco vi concluse la sua esistenza il 24 giugno del 1142.  La struttura, in origine un monastero dop­pio a prevalenza femminile, conobbe il suo mas­simo splendore in epoca normanno-sveva e agli inizi della dominazione angioina. Nel 1152 fu costruita la torre Febronia – il nome lo si deve alla Badessa che la fece costruire – realizzata con pietre di risulta di un mausoleo del periodo romano dedicato a M. Paccio Marcello. Nel 1225 l’arrivo al monastero della reliquia del braccio di san Luca fu occasione per la costru­zione della cappella omonima, fatta realizzare dalla Badessa Marina. La cappella, su due livel­li, è un gioiello architettonico dell’arte gotica, caratterizzato da capitelli federiciani. Attraverso una scala con un corrimano a forma di serpente si accede al portale in stile romanico-pugliese in calcarinite rossa, pietra tipica del territorio. In epoca moderna l’Abbazia fu retta direttamente dai monaci di Montevergine i quali restaurarono il complesso e fecero costruire la grande chiesa settecentesca su progetto di Domenico Antonio Vaccaro (1733-1740 circa), dove furono traslate le ossa del Santo fondatore.

 

 

 

 

 

 


L’Abbazia fu sop­pressa nel 1807 durante il decennio francese e le ossa di San Guglielmo furono traslate definiti­vamente a Montevergine.Dopo una lunga permanenza di P. Lucio Marino dei monaci di Montevergine l’Abbaz
ia è stata affidata alla Comunità dei Piccoli fratelli della Comunità Jesus Caritas di Charles de Foucauld.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

S.Francesco a Folloni

 

Nel 1222 frate Francesco d'Assisi, passando per le terre di Montella, fondò il convento... La chiesa-convento di S.Francesco a Folloni costituisce meta fissa non solo per i montellesi ma anche per una moltitudine di pellegrini che ogni anno giungono dai vari paesi e città d'Italia e non solo. Antiche fonti e tradizioni raccontano che Francesco d'Assisi riparò qui provvidenzialmente nell'inverno del 1221, sotto un leccio.

Nonostante il tempo da lupi - è il caso di dire perché di terra irpina si sta parlando - la neve che cadde  quella notte non lambì le fronde sempreverdi dell'albero né inzuppò le tonache di quei pochi frati che vi avevano trovato rifugio per la notte. Il fatto prodigioso non tardò molto a passare di bocca in bocca, come l'identità della guida di quel drappello di forestieri, vestiti in modo vile: frate Francesco e i frati minori, diretti alla grotta di san Michele sul Gargano. Alle richieste insistenti della gente e del castellano il santo di Assisi cedette volentieri, lasciando due frati che costruissero accanto all'albero un romitorio dedicato alla Vergine dell'Annunciazione.

Il leccio, nascosto nelle fondamenta del convento, è diventato radice dell'albero secolare che è il Complesso Monumentale di san Francesco a Folloni. Questa storia leggendaria e drammatica, non è l'unico "documento" della fondazione né l'unico fioretto che si tramanda della prima fraternità che ebbe il privilegio di iniziare un'avventura spirituale che continua da otto secoli.  Appena due anni dopo, sempre la neve fa da occasione ad un altro prodigio: i frati sono bloccati da giorni e non hanno da mangiare, né qualche anima pia può portar loro un pane, perché dall'abitato è impossibile percorrere due miglia nella neve alta.

Qualcuno bussa alla porta, viene spalancato l'uscio a un altro misero che certo chiederà da mangiare, ma non c'è nessuno. Solo un sacco pieno di pane fragrante sulla neve alta. Si cercano impronte che non ci sono. E il sacco, è di lino, ricamato a gigli di Francia. Troppe domande, la fame e il freddo rendono quei poveri uomini avidi di cibo. Ma con stupore mangiano quei pani, intanto si smorzano i morsi della fame ma non le domande: Chi sarà stato? E un sacco tanto prezioso? E i gigli, francesi in Irpinia? Solo tempo dopo sapranno che Francesco era in Francia presso la corte di Ludovico VIII: in visione aveva saputo del pericolo per i suoi frati e per mano di angeli aveva inviato quel sacco di pane fino a Montella. Conserveranno allora il sacco come tovaglia d'altare, e nei secoli a venire sarà la reliquia più preziosa del convento.

A pochi passi dal Convento una limpida fonte d'acqua ricorda ancora un prodigio del Poverello. Tornando dalle Puglie e trovando intenti i frati a riparare le rovine del luogo per costruire il romitorio insieme a buona gente del posto che li aiutavano, provvide a far scaturire una fonte chiara perché si dissetassero mentre le acque del fiume Calore in piena erano troppo torbide da potersi bere. La fede e la devozione della gente di questa terra irpina al Poverello sarà proclamata a tutto il mondo dal pennello di Giotto che nella Basilica superiore di Assisi dipinse, tra i tanti miracoli attribuiti a Francesco dopo il suo transito nel 1226, quanto accadde a Montemarano, poco lontano da Montella. Una donna devota era morta senza il conforto della confessione. Durante il suo funerale si svegliò chiedendo un confessore: per intercessione del beato Francesco le era stato concesso di tornare in vita per poter essere assolta dai peccati. Una volta ricevuta l'assoluzione si riaddormentò in pace.

 

 

 

 

 

Santuario del SS Salvatore

 

Il Santuario è situato a sei chilometri circa da Montella e vi si può accedere attraverso una comodissima strada rotabile. Visitare il Santuario del SS Salvatore Il piazzale panoramico èaccessibile tutto l'anno. Invece, le funzioni religiose sono officiate da Agosto a Settembre.

Il Santuario del Santissimo Salvatore  sorge sulla sommità di un monte isolato dal resto della catena montuosa, a m. 954 di altitudine. Domina, quindi, tutta la vallata sottostante. "E' un luogo indimenticabile, per chiunque vi sosti in meditazione, ci si sente sospesi tra terra e cielo..."
Si raccontano miracoli e prodigi legati al santuario e al Gesù giovinetto, come quello del pozzo del miracolo, situato proprio nel piazzale del santuario, in cima alla montagna, da cui è possibile attingere l'acqua.Ogni anno il santuario è meta di pellegrinaggio, in particolare il 6 Agosto non solo da parte dei Montellesi, che lo considerano il loro protettore, ma anche dagli abitanti dei paesi limitrofi. Infatti, molti sono quelli che risalgono la montagna del santuario a piedi, in segno di devozione. Partono di notte da paesi lontani anche 30 km per ritrovarsi la mattina dopo, per la funzione religiosa.  Un'altra "tradizione religiosa" legata al santuario è quella di suonare almeno una volta all'anno la sacra campana del peso di circa 20 quintali, fusa nel 1849 dai Fratelli Marinelli di Agnone.

La campana viene suonata a doppio rintocco da almeno 4 persone e nelle sere d'estate è possibile sentirne il suono anche a 20 km di distanza.La facciata del Santuario è stata completamente ristrutturata nel 1979, si presenta molto semplice ed essenziale. L'ingresso dell'attuale chiesa settecentesca è preceduto da tre arcate con colonne che immettono in un piccolo atrio; da qui si accede al Tempio e, già entrando, si è toccati da un'atmosfera di sacro e silenzio, che emoziona.

 

Di bellissima fattura è l'altare del 1789, opera di un "mastro" marmoraio napoletano, vero gioiello, in marmi policrorni fusi armonicamente, e con al centro del paliotto l'immagine a rilievo del Salvatore. L'iconografia del Salvatore è quella del Gesù della Trasfigurazione, che nella rappresentazione popolare ha assunto le sembianze di Gesù giovinetto. La statua lignea policroma ne è un bellissino esempio.
Molto belle sono anche le cinque vetrate artistiche che rappresentano alcuni episodi del Vangelo e la Madonna della Neve.

 NeI 1995 è stato situato a sinistra entrando, il bel mosaico che rappresenta la Trasfigurazione e che ricorda il gemellaggio tra il Santuario e la Basilica del Tabor in Israele.

La porta centrale d'ingresso, fusa in bronzo con sei formelle a bassorilievo raffiguranti la storia del Santuario, fu inaugurata nel 1979 in occasione del secondo centenario degli avvenimenti miracolosi. E' un'opera dello scultore P. Tarcisio Musto, il quale ha anche realizzato il bel Gesù Risorto, che, nel Sacrario dei caduti in guerra, si slancia con volto gioioso, sprigionante una particolare luminosità. 
Le altre due porte laterali, sempre in bronzo, sono state modellate dallo scultore Antonio Manzi, nativo di Montella, ma operante a Firenze. Rappresentano i momenti salienti dell'opera di Redenzione: l'Annunciazione, la nascita di Cristo, l'Ultima Cena e la Crocifissione.

 

 

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Santuario di san Gerardo Maiella

 

L'edificio religioso è collocato nella frazione Materdomini (sede di numerose strutture ricettive) ed è meta di continui pellegrinaggi da ogni parte di Italia. Vi si può visitare il Museo Gerardino che contiene numerose testimonianze di vita di san Gerardo Maiella. La tomba del santo è collocata al centro della vecchia Basilica dietro un altorilievo in marmo, dove si intravede la nuova urna in cristallo, argento e madreperla, che contiene il corpo di san Gerardo. Alla chiesa già presente si è aggiunta la nuova chiesa del Redentore, costruita negli anni '70 su progetto dell'architetto Giuseppe Rubino.

Le forme architettoniche ricordano la biblica Tenda per il Tabernacolo, costruita da Mosè nel deserto per ordine di Dio e presenta opere di notevole interesse artistico, fra cui il portale in bronzo, un'imponenente statua bronzea del Cristo Redentore, e ancora i mosaici raffiguranti gli apostoli e gli arredi monumentali tra cui l'altare, l'ambone e il portacero pasquale. Figlio di un modesto sarto di nome Domenico e di una donna del popolo di nome Benedetta Galella, Gerardo Maiella era originario di Muro Lucano (PZ) dove nacque nel 1726.

Dopo la prematura morte del padre entrò al servizio del vescovo di Lacedonia, mons. Claudio Albini. Morto questo prelato, Gerardo, che già avvertiva da molto tempo la chiamata del Signore alla vita religiosa, cercò invano di essere ammesso tra i frati cappuccini della sua città natale, a causa della sua salute cagionevole.

Nel 1748 ebbe modo di conoscere un gruppo di sacerdoti redentoristi impegnati in una missione popolare nella sua Muro e, contro il parere della madre, si unì alla nuova famiglia religiosa. Scappato di casa grazie all'aiuto di un lenzuolo usato a mo' di fune per calarsi dalla finestra e lasciato un biglietto alla madre nel quale aveva scritto "mamma, perdonami, vado a farmi santo", Gerardo si unì alla compagnia dei missionari redentoristi dai quali, solo dopo molte insistenze, fu accettato. Lavoratore instancabile, nonostante la sua fragilissima salute che, dapprincipio, aveva reso i superiori restii ad ammetterlo nella Congregazione, Gerardo si contraddistinse sempre per il suo spirito di penitenza ed per una giocondità d'animo non comuni.

Nel 1752 pronunciò i voti solenni nelle mani di Sant'Alfonso Maria de' Liguori, fondatore della Congregazione: nei conventi dove fu destinato si dedicò alle mansioni più umili senza trascurare la preghiera e la penitenza. I fedeli lo ricordano dotato del dono dei miracoli, nella sua breve esistenza i fatti prodigiosi raccontati e legati alla sua persona furono tanti e tali da meritargli in vita la fama di taumaturgo. Tra i tanti presunti miracoli si raccontano estasi, bilocazioni, scrutazione dei cuori, moltiplicazione dei viveri, guarigioni.

Fra i tanti ne citiamo alcuni. Innanzitutto il miracolo del mare avvenuto a Napoli: in località Pietra del pesce una folla urlante assisteva agli inutili sforzi di alcuni marinai che, nel mare in tempesta, cercavano inutilmente di salvarsi. Accorso Gerardo sul luogo, subito, fattosi il segno della croce, iniziò a camminare sul mare e, afferrata la barca «con due ditelle», come raccontava ingenuamente lui a Materdomini ai confratelli, come se la cosa fosse normale, la trascinò a riva. Un altro miracolo degno di nota è quello relativo alla moltiplicazione delle derrate in occasione della carestia del 1754. In quell'inverno a Caposele molti erano coloro che, costretti dalla penuria di alimenti, bussavano alla porta del collegio redentorista.

Gerardo, per sfamare tutti, vuotò letteralmente le dispense che, miracolosamente, si riempivano di pane e di ogni ben di Dio. Amico dei poveri e dei contadini, Gerardo, che negli ultimi anni faceva il questuante, riscosse negli ambienti popolari un'ammirazione straordinaria. Si narra, infatti, che quando passava di paese in paese, ali di folla lo aspettavano sui margini delle strade per avere la sua benedizione o per vedere soltanto questo umile fraticello che, sempre col sorriso, si sforzava di salutare tutti.

Ricchi, poveri, nobili, borghesi, umili facevano a gara per poterlo ospitare e godere della sua presenza. Era conosciuto come il padre dei poveri - così lo chiamavano - l'Angelo e l'Apostolo della Valle del Sele, che ancora oggi si gloria di custodire i suoi resti mortali nel Santuario eretto sulla sua tomba in Materdomini. Gerardo conservò sempre la sua encomiabile umiltà e la fede nell'obbedienza alla volontà di Dio manifestata dai suoi superiori. Il suo animo umile brillò particolarmente nell'episodio della calunnia. Il fatto si verificò nel 1754: accusato ingiustamente da una certa Nerea Caggiano di avere avuto una relazione con lei, Gerardo non replicò e rimase in silenzio per un mese, subendo pazientemente le gravi sanzioni dei suoi superiori; finalmente la Caggiano, pentita, confessò di aver detto il falso, scagionandolo. Lo stesso Sant'Alfonso in quella occasione ne lodò l'ammirevole pazienza mostrata nella triste vicenda.

"La fede mi è vita e la vita mi è fede" e "volontà di Dio in cielo, volontà di Dio in terra", soleva dire e, soprattutto, osservare. Gerardo Maiella oggi è universalmente invocato come protettore delle donne incinte. La leggenda narra che poco prima di morire aveva fatto finta di dimenticare, ad Oliveto Citra, un suo fazzoletto presso la casa di una famiglia che l'ospitava. Una bambina, allora, gli corse dietro per restituirglielo, ma Gerardo le disse di tenerlo perché un giorno le sarebbe servito. Passati alcuni anni - Gerardo era già morto - la bambina, diventata sposa, gridava per le doglie del parto. I medici la davano per spacciata.

Giunta quasi in fin di vita, si ricordò del fazzoletto di fratel Gerardo e volle che glielo posassero aperto sulla pancia. Appena ricevutolo, i dolori cessarono e la donna diede alla luce senza alcuna difficoltà il suo primo figlio. Morì di tisi nel convento redentorista di Materdomini di Caposele all'età di 29 anni, il 16 ottobre 1755, dopo un breve periodo trascorso a letto durante il quale, si dice, non mancarono i fatti prodigiosi. Sempre secondo la leggenda la mattina dopo la morte del Santo, il fratello laico incaricato di suonare la campana a morto per dare l'annuncio funebre, fu preso da una forza misteriosa nelle braccia le quali, sottratte alla sua volontà, suonarono a festa le campane, dando così l'annuncio gioioso della nascita al cielo di Gerardo.

La chiesetta dove il suo corpo venne esposto fu subito presa d'assalto da una moltitudine di gente venuta dalla vicina Caposele e anche da lontano, avvertita quest'ultima della morte del Santo.

 

 

 

 

 

 

 

IL SANTUARIO DI MONTEVERGINE

L'origine ufficiale del Santuario di Montevergine risale alla consacrazione della prima chiesa nel lontano 1126. Tuttavia l'ascesa di Guglielmo al monte era di qualche anno precedente. Su quelle cime impervie il Santo era andato cercando un luogo solitario per raccogliersi in preghiera, ma fin da subito la sua fama e le sue virtù attrassero sul monte uomini e donne, discepoli e sacerdoti desiderosi di servire Dio sotto il suo magistero. La nascita del Santuario fu quindi alquanto spontanea, Guglielmo non aveva mai pensato a una propria organizzazione monacale.

Eppure in poco tempo le persone sopravvenute sul monte per seguirlo, avviarono un'intensa attività edificatrice, cosicché furono presto pronte le prime celle per i religiosi e una piccola chiesetta. Si trattava in verità di umili capanne tenute in piedi con un po' di malta e fanghiglia, sufficienti comunque a dare l'idea di una sorgente comunità religiosa sotto la guida del Santo.

Lo stesso afflato religioso che spontaneamente aveva riunito attorno alla figura di Guglielmo una prima comunità monastica, fu alla base della scelta di dedicare la primitiva chiesa alla Madonna. Al di là di alcune credenze popolari che hanno voluto legare l'origine del Santuario a un'apparizione della Madonna, si può dunque affermare che fu proprio lo spirito ascetico mariano di San Guglielmo e dei suoi discepoli a fare in modo che sulle cime del monte Partenio si elevasse un faro di devozione alla Santa Vergine Madre di Dio.

Da allora lo scopo principale della nuova famiglia monastica fu quello di servire Dio mediante la devozione alla Madonna, che i discepoli di Guglielmo presero ben presto a diffondere in tutta la Campania e nelle regioni adiacenti, organizzando numerosi

pellegrinaggi verso la loro casa madre. La devozione mariana fu concepita dai bianchi figli di Guglielmo come la via più efficace per inserirsi nel mistero della Trinità di Dio e della redenzione operata da Gesù. Il motivo fondamentale del faticoso viaggio e dell'aspra salita alla chiesa di Santa Maria di Montevergine, delle prolungate preghiere e delle offerte dei credenti, divenne l'indella potente intercessione della Madonna per ottenere la misericordia di Dio. Fu così che Montevergine si trasformò presto nel Santuario mariano più famoso e visitato dell'Italia Meridionale e i pellegrinaggi assunsero la loro specifica caratteristica.

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LA CONGREGAZIONE VERGINIANA

Al 1126 risale anche l'origine ufficiale della nuova famiglia religiosa cresciuta attorno a San Guglielmo. La Congregazione verginiana, detta all'inizio degli eremiti di Montevergine, è rimasta autonoma fino al 1879, anno di unificazione con la Congregazione sublacense (della quale fa parte ancora oggi), sancita definitivamente dal papa Leone XIII con breve pontificio dell?8 agosto 1879.
 
Il cenobio verginiano assunse un carattere ufficiale proprio in concomitanza con la consacrazione della primitiva chiesa dedicata alla Madonna. In quello stesso anno, infatti, fu redatto un documento che sancì la totale esenzione dalla giurisdizione episcopale per i monaci di San Guglielmo, ai quali fu garantita così un'ampia autonomia nell'organizzazione e diffusione del nuovo ordine monastico. La Congregazione ha sempre avuto un rapporto privilegiato e allo stesso tempo semplice e popolare con le masse dei fedeli. Seguendo l'esempio del loro fondatore e padre spirituale, i Verginiani non hanno mai disdegnato il contatto con persone di ogni ceto sociale. Il carattere di tutte le loro istituzioni fu, infatti, prevalentemente assistenziale.
 
Accanto alla propaganda religiosa, operata in lingua volgare per raggiungere le masse, si occuparono di affari pubblici, mettendo pace fra le famiglie rivali o fungendo da strumento di mediazione contro lo strapotere dei feudatari. I loro ospedali sparsi per tutto il regno di Sicilia, svolsero un ruolo determinante nella diffusione della cultura medica. La presenza dei monaci di San Guglielmo sul territorio contribuì quindi notevolmente a far considerare le attività assistenziali e ospedaliere come un obbligo della comunità e dello stato verso i suoi membri più deboli e bisognosi.

 

 

LA STORIA

Nel XII secolo, cuore del medioevo cristiano, San Guglielmo incarna una delle immagini più elevate dell'uomo di Dio. Apostolo e pellegrino, perennemente in marcia, Guglielmo dedicò la sua vita, per molti aspetti avventurosa e fantasiosa, alla diffusione del Vangelo in ogni luogo e presso ogni genere di umanità.
Nell'ambito del cristianesimo medioevale, egli rappresentò un anello di congiunzione fra le esperienze dei monaci che guidarono la riforma dell'ordine benedettino dagli eremi di Camaldoli, Vallombrosa e Chiaravalle, e il ritorno ad una religiosità più viva e spontanea, semplice e popolare, meglio adatta a interpretare il modello evangelico. Per questo motivo Guglielmo è stato spesso affiancato alla figura di San Francesco, sebbene il "poverello" di Assisi nascerà soltanto quarant'anni dopo la morte del fondatore di Montevergine.
 
La sua opera di apostolato nel Meridione di Italia precorre quella di San Francesco, tuttavia un'iconografia e una letteratura troppo scarse, sorte comune a quella di molti altri precursori, non ci restituiscono oggi la giusta misura della vita e delle opere di San Guglielmo da Vercelli. La vera storia del Santuario di Montevergine comincia con la consacrazione della prima chiesa da parte del Vescovo di Avellino, quando (come si esprime il primo biografo) «edificata la chiesa e raccolto ivi non piccolo numero di persone per il servizio di Dio, dietro il parere comune, Guglielmo decise che la suddetta chiesa fosse dedicata ad onore di Maria, Madre di Dio e sempre Vergine».
 
Perciò il Santuario di Montevergine deve la sua origine non già ad un'apparizione della Madonna o a qualcosa di simile, ma a quello spirito ascetico mariano di San Guglielmo e dei suoi discepoli, che, non senza ispirazione divina, vollero costruire a Montevergine un faro di devozione alla Madonna, consacrandole su quel monte una chiesa e dedicandole il primitivo cenobio. Guglielmo, acceso il fuoco dell'amore di Dio e della Vergine sul sacro monte, si porta altrove consigliere di potenti, soccorritore di umili, operaio infaticabile nell'edificare le case del Signore e dei suoi religiosi, che dappertutto gli fanno intorno spessa corona.
 
La sua laboriosa giornata terrena si chiude il 24 giugno 1142, nel Monastero del Goleto, presso Sant'Angelo dei Lombardi (Avellino). Ben presto alle dipendenze del Monastero di Montevergine sorsero molti altri monasteri, sviluppandosi in tal modo la Congregazione verginiana.
I secoli XII-XIV segnarono il massimo splendore di questo istituto: papi, re, principi e grandi feudatari fecero a gara nell'arricchire Montevergine chi di beni spirituali, chi di munifici doni, chi di larghi feudi e di protezione sovrana.
 
La Congregazione ebbe molto a soffrire durante il Grande Scisma d'Occidente (1378-1420), e così cominciò a declinare, prendendo addirittura una piega vertiginosa dal giorno in cui l'infausta commenda (1430-1588) fece passare la responsabilità del governo abbaziale su uomini che non avevano altro interesse che di percepire le laute prebende dei benefici ad essi assegnati. Questa fatale discesa si cercò di frenare dopo il 1588 con un secondo periodo di risveglio e di vitalità; ma in seguito intervennero altri fattori, che distrussero quasi completamente la Congregazione nelle due fatali soppressioni del 1807 e 1861. A stento si salvò il Santuario, come a tenere accesa per i secoli la devozione alla Madonna e al suo servo fedele, Guglielmo da Vercelli.
 
 
 
 

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NUSCO - ORIGINE DELLA CHIESETTA DI SANT’ANTONIO

di Marino Giovanni

La terribile peste del 1656 si abbatté su Nusco in modo devastante: dei circa 1500 abitanti ne sopravvissero non più di 450-500. Si conservava un libro dei morti di quei terribili mesi: i decessi furono annotati alla rinfusa da don Francesco De Mita , parroco di Santa Maria Vetere. Si annotava che la tal famiglia si era estinta o l’unico sopravvissuto. Ne morivamo venti al giorno: la Chiesa era aperta notte e giorno, per le continue sepolture.
 
I preti andavano in giro per il paese, dando i sacramenti ai malati sulla porta di casa, o porgevano il viatico da mezzo alla strada o attraverso le finestre delle abitazioni sulla punta di un palo di legno. Nei giorni di massima virulenza del contagio, fu ordinato ai malati di andare a coricarsi vestiti, per fare in modo che se la mattina erano ritrovati morti si evitava il contatto con le carni.
Eppure in quei giorni la pietà di alcuni fu grande e si portarono a seppellire i morti più disgraziati ai piedi dei ruderi del Castello.
 
 
Due anni dopo il contagio, quando si fece la numerazione dei sopravvissuti, fra questi vi era il tenente Angelo Marsico, di anni 62, con la moglie Diana Petruzziello, di anni 45. Avevano case vigne, terreni, masseria e bestiame (dal valore di 300 ducati).
Stando alle poche notizie che abbiamo, fu il tenente, ritiratosi a vita privata dopo una brillante carriera militare, ad edificare a sue spese tale Chiesa a devozione del Santo di Padova e dove si fece seppellire. Fu lui anche ad ordinare la pregevole statua del Santo opera del celebre scultore Giacomo Colombo. Da allora Sant’Antonio divenne il cimitero di Nusco.
Il cinquecentesco portale della Chiesa che una volta adornava la Cattedrale fu fatto trasportare verso la fine del 1800 presso la Chiesetta e restaurato. E' un portale di notevole interesse artistico.

Nel 1896 il vescovo di alllora, Emilio Todisco Grande istituì una confraternita laicale che prese il nome del Santo. Essa era composta per lo più da artigiani nuscani e non solo partecipava alla vita della Chiesa ma l'adottava per farla più bella con opere ed iniziative civili e religiose. Questa congrega composta da confratelli è finita nel 1952 anche se poi è stata ricostituita come organismo di partecipazione.Non ho mai capito fino in fondo da dove e perché nasce tanta simpatia nel mio paese per Sant’Antonio di Padova, ma ho sempre considerato tale culto uno degli aspetti della “religiosità popolare” - per la quale nutro profondo rispetto – fra i più vivi della comunità nuscana.

 

 

 

Sant’Antonio, il santo più amato dagli italiani, appartiene a quella tradizione “francescana” che in modo dirompente sta ritornando di attualità. Come non esserne felici. Eppure ho grande nostalgia per questo giorno così come è sedimentato nella mia memoria . Rivedo sempre lo stesso film. Di prima mattina, nella giornata del 13 giugno, scendere monelli per via Santa Croce e guardare, sbalordito ed incantato, le rondini che sostavano sui fili dei pali della corrente elettrica accanto a palazzo Saponara. Camminare fra l’odore di sambuco e gli alberi di noci prima di arrivare alla Chiesetta per fare incetta di pane e panini odorosi e fragranti distribuiti , il cui odore ancora oggi mi sazia. Il successo di Sant’Antonio è tutto legato al “pane” (altro che magia e nostalgia) e il popolo di Nusco sa bene quanto dolore è costato avere la certezza di un pezzo di pane. Non dovremmo mai dimenticarlo, soprattutto oggi che milioni di persone chiedono e ci chiedono la stessa cosa.

 

 

 

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Compulsando vecchie immagini ritornano a vivere persone "in carne ed ossa" che hanno fatto "dal basso" la storia di Nusco. Ecco la prof.ssa Raffellina Bicchetti, poco prima della sua scomparsa, pensierosa perchè non ha ancora deciso se partecipare o meno ad uno dei miei travagliati viaggi.Non le piaceva sentirselo dire, ma mi piaceva ricordarle che agli inizi degli anni sessanta era stata mia supplente. " Non è possibile - mi rispondeva sagace - se fosse vero avrei cento anni.

Non ho mai capito fino in fondo da dove e perché nasce tanta simpatia nel mio paese per Sant’Antonio di Padova, ma ho sempre considerato tale culto uno degli aspetti della “religiosità popolare” - per la quale nutro profondo rispetto – fra i più vivi della comunità nuscana. Sant’Antonio, il santo più amato dagli italiani, appartiene a quella tradizione “francescana” che in modo dirompente sta ritornando di attualità. Come non esserne felici. Eppure ho grande nostalgia per questo giorno così come è sedimentato nella mia memoria .
 
Rivedo sempre lo stesso film. Di prima mattina, nella giornata del 13 giugno, scendere monelli per via Santa Croce e guardare, sbalordito ed incantato, le rondini che sostavano sui fili dei pali della corrente elettrica accanto a palazzo Saponara. Camminare fra l’odore di sambuco e gli alberi di noci prima di arrivare alla Chiesetta per fare incetta di pane e panini odorosi e fragranti distribuiti , il cui odore ancora oggi mi sazia. Il successo di Sant’Antonio è tutto legato al “pane” (altro che magia e nostalgia) e il popolo di Nusco sa bene quanto dolore è costato avere la certezza di un pezzo di pane. Non dovremmo mai dimenticarlo, soprattutto oggi che milioni di persone chiedono e ci chiedono la stessa cosa
 
 
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 Fontigliano

Tra i santuari campestri, la chiesa di Fontigliano rimane l'unica realtà storica-religiosa ed anche la più appariscente.

Localizzata a pochi chilometri da Nusco, si trova alle falde dei monti Picentini, in un'oasi naturale di vegetazione e di incontaminato paesaggio. Qui si venera la statua in legno pesante sotto il titolo di Madonna di Fontigliano (rappresentante la Vergine seduta che regge il Bambino) che, pur ricordando motivi bizantini, forse risale al XV secolo. Una sua copia si trovava presso la chiesa di S. Maria la Longa di Cassano Irpino.

        La chiesa, forse sorta sui ruderi di un tempio pagano, subì crolli, devastazioni e terremoti. Ritrovò nuova collocazione e importanza nel secolo XI con il primo vescovo di Nusco, Amato, che la ricostruì affidandola a monaci benedettini cassinesi.

        Nel 1460, sotto il feudatario Giancola de Gianvilla, diventò, per mancanza di monaci, proprietà della mensa vescovile, per cui il presule di Nusco prese anche il titolo di Abate di Fontigliano."

    " Il Santuario, accorsato  pellegrinaggio  nel  periodo  di ferragosto e che fa riversare folle di fedeli, potrebbe, con l'istituzione di una casa religiosa, essere aperto tutto l'anno e  rinverdire  l'opera  di apostolato di un tempo che fu."

 Annesso alla chiesa vi è un Antiquarium dove sono raccolti alcuni interessanti reperti archeologici d'epoca romana.

" Il territorio nei pressi della badia di Fontigliano era luogo di convivenza tra Nuscani e Bagnolesi. Il continuo rapporto e le rispettive pretese di usi civici, per le corrispondenti rivendicazioni delle due Università, determinarono continui contrasti, rappresaglie e fatti di sangue."

" Il secolare dissidio durò fino al 1785, anno in cui, determinati i confini, Fontigliano entrò a far parte del territorio di Nusco."

" Alla chiesa, più volte in rovina, hanno ripetutamente provveduto i vescovi di Nusco: angelo Picchetti nel 1663, Giacinto Dragonetti nel 1708, Gaetano D'Arco nel 1746 e nel 1840 fu riedificata da mons. Francesco P. Mastropasqua."

" Importanti lavori di restauro furono eseguiti nel 1950"

" Si provvide in economia con il determinante  interessamento del sacerdote nuscano don Nicola De Mita, parroco di New Caste, che raccolse fondi nel Nord America. Durante l'esecuzione del manufatto furono rimosse lapidi ed iscrizioni murate, oggetto di studio e riportate dal Mommsen. Gli ultimi restauri sono stati realizzati a seguito della ricostruzione postsismica."

" Anche la statua di legno della Madonna ebbe la sua parte nella storica contesa tra Nusco e Bagnoli."

" Lo storico Giuseppe Passaro (Cronotassi dei vescovi, Le Tavole, 1980, vol. I, pag. 152) scrive:

-......La Madonna di Fontigliano fu dai Nuscani tolta dalla sua sede e trasportata nella chiesa cattedrale. Si credette, così, di sottrarla ad eventuali furti da parte dei bagnolesi.-

" ..... la tradizione racconta che non si trattò di un malvagio pensiero ma che anzi, una notte, la statua fu asportata e, con meraviglia di tutti, il mattino successivo fu ritrovata in chiesa nella sua nicchia. L'antica statua fu riportata nella sua sede originaria il 24.09.1950. A benedire la chiesa fu Cristofaro Carullo, amministratore apostolico della diocesi di Nusco."

" Le due foto processionali ricordano la solennità del momento."

 
 
 
 
 
 
 
 
 Bottoni (120)